Storia della sarda a beccafico

Dai piani nobili ai vicoli di Palermo

Nel settecento a Palermo era uso per l’aristocrazia mangiare un piccolo uccelletto meglio conosciuto come beccafico. Chi cucinava questa ed altre delizie per i nobili era il monsù, il cuoco generalmente francese che sarebbe stato più appropriato chiamare monsieur le chef.

Ma i palermitani hanno sempre avuto poca dimestichezza con le lingue straniere, quindi il nome corretto fu abbreviato in monsù. Era lui che impiattava l’uccelletto ponendone, in modo decorativo, la coda all’insù e suscitando la curiosità dei servitori che rimanevano esterrefatti da tanta inventiva e abilità. Ciò li spingeva, tornando a casa dalle loro famiglie, a riproporre la stessa ricetta ma con ingredienti più economici giacché il beccafico era troppo costoso.

L’alternativa fu trovata nella sarda, un pesce che risultava ancora più economico quando, invenduto da qualche giorno, aveva perso freschezza e qualità. Aperta e deliscata, fu utilizzata come base per un involtino il cui ripieno era semplice pan grattato tostato a cui si aggiungevano sale, acciughe spezzettate, uva passa e pinoli. L’involtino così composto veniva sistemato in una pirofila con aggiunta di foglie di alloro e succo di agrumi (limone o arancia) e con la coda all’insù in ricordo della ricetta da cui traeva origine. 

Nulla era lasciato al caso; pinoli e alloro avevano lo scopo di evitare intossicazioni alimentari dovute al pesce non più fresco. Il cibo nutriva ma in se conteneva anche il rimedio medico che lo rendesse assimilabile.

Oggi nessuno cucina più la capinera mentre la sarda a beccafico è diventata un must della cucina siciliana. Nel corso degli anni la cucina dei gattopardi è andata scivolando dalle ricche tavole dei piani nobili fin giù per le strade, dove è stata reinterpretata dalla gente più umile sopravvivendo a quella della nobiltà.

Caterina Branciforte. Una donna ribelle

Storie sull’ultima principessa di Butera

Correva l’anno 1768 e mentre Ferdinando di Borbone sposava a Napoli l’austriaca Maria Carolina d’Asburgo Lorena, a Palermo nasceva Caterina, una dei quattro rampolli di casa Branciforte principi di Butera che, insieme alla sorella minore, sarebbe sopravvissuta ai fratelli maschi. In Sicilia il gentil sesso è sempre stato più resistente. Il padre Ercole Michele Branciforte, principe di Pietraperzia, per evitare l’estinzione della famiglia, la fece convolare a nozze con il cugino, un Branciforte di casa Scordia. A Caterina Placido non piaceva affatto ma da lui ebbe una figlia e ben presto scoprì che il marito, di placido aveva solo il nome. Infatti ne suscitò le ire irrefrenabili a seguito di un tradimento che consumò a Napoli con un militare spagnolo. Il fascino della divisa iberica. Placido minacciò di uccidere entrambi ma lo spagnolo fuggì dall’Italia mentre Caterina, tornata a Palermo, si chiuse in convento e ci rimase per 7 anni. Morto il marito poté finalmente riacquistare la libertà e in breve conobbe un altro militare, il tedesco George Wilding di 20 anni più giovane di lei. Il fascino della divisa teutonica. Totalmente innamorata, lo seguiva anche in battaglia aspettando in tenda il suo ritorno per una lunga notte d’amore. Intanto era spesso a Napoli, in veste di dama della regina, dove si mormorava fosse una spia assoldata dalla corona per carpire informazioni agli inglesi. Di doppio gioco ne sapeva già qualcosa in quanto era intima amica della principessa di Partanna, già all’epoca amante di re Ferdinando.

A 46 anni Caterina assicurava al padre che, essendo ormai anziana, non avrebbe mai dato un erede al Wilding, in grado di intaccare il patrimonio dei Branciforte, quindi Don Ercole acconsentì alle nozze dei due che stabilirono la loro dimora presso una elegante villa sul Piano dell’Olivuzza. Anziana ma ancora bella, Caterina soprassedeva ai tradimenti del giovane marito, ormai divenuto Principe di Radalì, che a tempo debito, sapeva come farsi perdonare. Rimaneva solo la sorella minore a minacciare il patrimonio di famiglia ma Caterina, con una serie di sotterfugi legali, riuscì ad affibbiarle uno dei feudi di casa Branciforte in cui la relegó per il resto dei suoi giorni. Caterina morì nel 1831 lasciando al consolabilissimo marito la casa dell’Olivuzza, il Castello di Falconara ed il feudo di Radalì. Di lei ci rimane un busto in marmo del Thorvaldsen.